L’agitazione universitaria a Firenze

«Il Ponte», a. XVII, n. 6, Firenze, giugno 1961, pp. 831-837.

L’AGITAZIONE UNIVERSITARIA A FIRENZE

La situazione di crisi dell’Università italiana, su cui aveva già richiamato la pubblica attenzione la giornata dell’università del 27 gennaio scorso, ha avuto una manifestazione clamorosa nella prima metà di questo giugno quando l’agitazione dei professori incaricati, che proclamarono la loro astensione dagli esami a causa del loro insopportabile trattamento economico e giuridico, ha dato il via ad una serie di avvenimenti i quali hanno scosso profondamente le strutture universitarie e richiamato l’attenzione di tutto il paese su di un problema che solo gli interessati al mantenimento di ogni forma dell’attuale situazione della società italiana possono minimizzare o presentare come effetto fittizio e interessato dell’azione antigovernativa dell’opposizione di sinistra.

Già la stessa agitazione degli incaricati mostrava la gravità della situazione dell’università italiana in cui il rapporto fra insegnanti e studenti raggiunge ormai le punte inverosimili di 1 a 110 (tale cioè da non permettere in alcun modo lo svolgimento di un lavoro che presuppone, e sempre piú, un diretto contatto fra docenti e discenti) e la maggior parte dell’insegnamento di materie spesso fondamentali ricade appunto sugli incaricati pagati con stipendi di fame e privi di ogni minima garanzia giuridica. E se alcune delle richieste di questa categoria possono apparire non accettabili (come quella secondo cui essi potrebbero ottenere, dopo un certo numero di anni di incarico, l’assegnazione, senza concorso, di una cattedra nelle scuole medie superiori), si può essere molto ragionevolmente d’accordo sul fondo delle loro rivendicazioni e sul giudizio severissimo da dare sulla insensibilità ai problemi universitari da parte dei governi succedutisi in questo dopoguerra, in una fase cioè che doveva segnare un generale rinnovamento sociale e democratico del nostro paese.

Ma l’agitazione degli incaricati (agitazione del resto già chiaramente inquadrata in richieste generali di riforma dell’università) ha perso tanto piú il suo carattere settoriale quando ad essa si è aggiunta quella degli assistenti (altro settore dell’insegnamento universitario profondamente bisognoso di nuovi provvedimenti e di un accrescimento di proporzioni massicce: ricorderò quale esempio dell’assurdità di tale situazione come la mia cattedra di letteratura italiana nella facoltà di Lettere di Firenze sia tuttora priva di un assistente di ruolo!) e quando sono entrati in azione gli studenti nella guida responsabile delle loro organizzazioni sindacali.

A questo punto tutto il mondo universitario si è trovato coinvolto nell’agitazione e se l’associazione dei professori di ruolo non ha preso immediata e chiara posizione (aspetto su cui non si può tacere un giudizio di biasimo e che mostra come proprio al vertice dell’insegnamento universitario si avverta piú fortemente il permanere di una piú scarsa sensibilità universitaria), gruppi di professori di ruolo piú avanzati e coscienti hanno ben sentito il loro dovere di partecipare all’agitazione in corso.

Ciò riguarda tutta l’università italiana, e va detto che l’atteggiamento nelle varie università andrebbe distinto anche per quanto riguarda le autorità accademiche, se si volesse qui delineare un consuntivo generale dell’agitazione in tutta Italia. Ma qui sono stato richiesto di testimoniare sulla situazione dell’Ateneo fiorentino dove l’agitazione ha avuto un carattere piú grave e sin drammatico e che infatti perciò ha occupato le pagine dei quotidiani e provocato reportages e interviste.

Ne traccerò dunque anzitutto una cronaca breve, ma sicura, perché a parte i pettegolezzi locali e le speculazioni politiche di alcuni giornali di destra, non sempre le relazioni e le interviste anche su organi ben intenzionati sono state del tutto soddisfacenti. Il fatto piú vistoso dell’agitazione fiorentina è consistito anzitutto nella presa di posizione delle organizzazioni studentesche e nella reazione del Senato accademico che, dopo un primo comunicato, non privo di un’assicurazione di platonica solidarietà con gli incaricati, ma fermo a sostenere la necessità dello svolgimento regolare degli esami e della illegalità di ogni spostamento di questi (e come fare regolari esami nell’assenza degli incaricati presenti non solo nelle proprie commissioni, ma in quelle degli ordinari?), fu attratto soprattutto dall’agitazione degli studenti e dall’occupazione da parte di questi di alcune facoltà: occupazione simbolica intesa a sostenere l’agitazione degli incaricati e a sottolineare la situazione di disagio in cui gli esami si sarebbero svolti. Né occorrerà rilevare, tanto essa è evidente, la generosità dell’azione degli studenti il cui interesse piú egoistico sarebbe stato solo quello di sostenere gli esami nelle date prestabilite, mentre esso cedeva di fronte ad un interesse piú profondo per l’Università e per il suo funzionamento in condizioni piú eque di trattamento degli insegnanti.

Invece il Senato accademico e il Rettore preferirono addossare la colpa del «disordine» agli studenti stessi e imboccarono una strada autoritaria e ministeriale (né si dimentichi il fatto che a questo punto appare sulla scena un ispettore del Ministero) che li condusse ad atti progressivamente sempre piú gravi. E sia chiaro che l’occupazione delle facoltà non implicò di per sé l’impedimento o l’interruzione dello svolgimento degli esami da parte di quei professori di ruolo che intendevano farli. Il Senato accademico e il Rettore si decisero invece alla chiusura dell’Università e non (come altrove è stato fatto) per sostenere gli incaricati e sottolineare di fronte al Ministero e all’opinione pubblica lo stato di crisi dell’Università, ma per rispondere in maniera punitiva e autoritaria all’occupazione studentesca delle facoltà.

Tuttavia, in un primo momento, si pensò ad una chiusura a tempo determinato e a garanzie sui modi di ripresa degli esami che gli studenti richiedevano e credevano di avere ottenuto. Tanto che essi decisero di interrompere l’occupazione, ripeto ordinatissima e simbolica, come di fatto fecero nella mattina del 6 giugno. Ma il comunicato del Senato accademico, pubblicato nel pomeriggio dello stesso giorno, aveva tutt’altro tenore da quello sperato e immaginabile. Non faceva parola delle giuste ragioni dell’agitazione degli incaricati, degli assistenti, degli studenti e della presa di posizione autorevole di un gruppo di professori di ruolo della Facoltà di Lettere i quali, in mancanza di una decisione da parte dell’ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo, ndr), si erano visti costretti (per solidarizzare con gli incaricati, non danneggiare gli studenti e non agire illegalmente con commissioni parziali o rimaneggiate illegalmente) ad agire per proprio conto rinviando di una settimana l’inizio dei propri esami. Con una dichiarazione che resero pubblica e che portava le firme del sottoscritto, di Roberto Longhi, di Eugenio Garin, di Glauco Natoli, di Giacomo Devoto, di Cesare Luporini, di Alessandro Perosa, di Ernesto Sestan, di Andrea Vasa, di Giovanni Pugliese-Carratelli.

Vi fu anzi nel Senato accademico un preside che chiese provvedimenti disciplinari contro questi professori che con la loro azione responsabile salvavano per primi (altri poi in altre facoltà fecero dichiarazioni simili e si comportarono in maniera analoga) il vero prestigio e la vera dignità dei docenti fiorentini. E alcuni di essi, piú attivamente presenti negli svolgimenti successivi, influirono indubbiamente sulla condotta degli studenti e rafforzarono la responsabile prudenza con cui gli organismi rappresentativi studenteschi evitarono atti piú impulsivi suggeriti dall’esasperazione prodotta dal comportamento del Senato accademico. Il quale, nel suo comunicato, tendenziosamente disconosceva il carattere organizzato e totale dell’agitazione studentesca (parlava solo di «alcuni gruppi di studenti») e chiudendo l’Università a tempo indeterminato dava carattere punitivo alla sua decisione, mentre deferiva al Rettore poteri che, in simile situazione, esso era tenuto a gelosamente conservare e ad esercitare direttamente.

La risposta degli studenti fu l’occupazione del Rettorato, il quale non è un sacro altare intangibile, ma un luogo dove i rettori esercitano il loro ufficio di capi elettivi dell’Università trattando direttamente, dove occorra, anche con la categoria degli studenti che bizzarramente alcuni considerano solo come elementi disturbatori e fastidiosi e non, come sono, parte essenziale dell’Università e senza di cui l’Università non avrebbe ragione di esistere.

Invece di trattare con le organizzazioni studentesche e di far valere il principio fondamentale dell’autonomia anche disciplinare dell’Università, il Rettore (ma con lui l’intero Senato accademico, cioè i presidi di tutte le facoltà, che a lui avevano conferito poteri straordinari e avevano già contemplato l’eventualità della richiesta d’intervento della polizia) ritenne di ricorrere alla forza pubblica che difatti intervenne la sera stessa nell’Università, ne fece uscire i circa duecento studenti di ogni facoltà che vi si trovavano prendendone il nome e rivolgendosi poi alla Procura, che sta ora esaminando la possibilità di configurare contro di loro il reato di occupazione di luogo pubblico.

Non occorrerà insistere sulla gravità del gesto del Rettore e del Senato accademico (fra l’altro nessuna delle autorità accademiche credé di dover esser presente all’atto dell’intervento della polizia quando si potevano temere anche atti di resistenza da parte degli studenti e quindi conseguenze tutt’altro che impossibili ed anzi ben immaginabili): atto che ha aperto una ferita non facilmente sanabile sia fra le autorità accademiche e la massa studentesca sia dentro lo stesso corpo accademico dimostrando come le autorità accademiche fiorentine non siano state all’altezza dei propri compiti e come nel loro comportamento si siano manifestati una mentalità ed un costume che sono fra le prime cause interne della crisi dell’Università.

È questo infatti, insieme alla insensibilità governativa su cui sarebbe inutile o ingenuo qui insistere, o che porterebbe a troppo lungo e amaro discorso, il primo elemento di riflessione che emerge dalla cronaca degli avvenimenti fiorentini e che riporta ad una severa diagnosi dei mali interni che affliggono l’Università. Cioè lo spirito non democratico, autoritario e erratamente legalistico di molti professori in cui la competenza scientifica e tecnica non è sostenuta e avvalorata da una adeguata consapevolezza dei propri doveri democraticamente educativi. Vecchio male italiano, come il conformismo e l’acquiescenza ai poteri ministeriali (tanto piú grave in persone che non hanno neppure il dovere del giuramento di fedeltà allo stato, che sono inamovibili e non hanno alcuna ragione di timore): vecchio male che si associa ad un singolare egoismo della cattedra e ad una posizione di vera e propria inimicizia verso gli studenti che ha avuto modo di manifestarsi di nuovo anche in questi ultimi giorni quando in una facoltà (nota del resto per idee destrorse dei suoi professori di ruolo), alla ripresa degli esami, il preside ha sentito di inviare una lettera poliziesca ai professori invitandoli a vigilare sulla condotta degli studenti, a denunciare al preside ogni minima scorrettezza, «anche di lieve natura», degli studenti, a isolare i pochi «mestatori» (che sarebbero i rappresentanti delle organizzazioni studentesche e i responsabili dell’agitazione recente). Professori con cui nessuna colleganza può indurci a superare il dissenso profondo, culturale ed umano, che da loro ci divide.

Ma altri elementi positivi ci inducono a ritenere molto importante e promettente l’agitazione degli scorsi giorni. Non solo il fatto che quanto è avvenuto non potrà non portare modificazioni nei rapporti fra il corpo accademico e le autorità accademiche (già tre facoltà hanno condannato il comportamento delle autorità accademiche) e che comunque si è rotta una situazione di passività in molti professori e si è giunti ad una coscienza migliore in loro di certe situazioni interne e dei rapporti fra Università e governo, ma soprattutto la constatazione della esistenza di docenti veramente democratici e di una maturità molto notevole da parte degli studenti.

È quest’ultimo il fatto che metterei in primo piano, non per una facile demagogia (sono notoriamente un professore severo e dall’esame contraddistinto da un materiale assai cospicuo, e qualche studente meno studioso non mi perdonerà certo queste colpe per le mie belle parole!), ma perché sono profondamente convinto che gli studenti sono l’apertura verso il futuro e che nelle loro mani è l’avvenire della nostra scuola e della nostra università e, in parte, del nostro paese. E il vederli cosí permeati di un vero spirito democratico, cosí desti agli interessi che li riguardano, ma ancor piú a quelli che potrebbero parer da loro piú lontani, cosí sensibili ai rapporti fra l’università e la scuola pubblica e la società, mi rallegra e mi fa sperar bene: cosí come ho sempre sentito conforto nel contatto con l’intransigenza morale, con l’entusiasmo e la serietà appassionata che salgono dalla loro calda e giovane vita, e da quella di tutti i giovani, studenti o no, piú liberi dalla contaminazione del conformismo e del tatticismo furbesco, dai compromessi avvilenti che paiono piú spesso aggravare il peso degli anni maturi e senili. Ma qualità in loro già consapevoli e rafforzate da una coscienza matura ed aperta che mi pare essenziale e tipica della vita organizzativa, della scuola pubblica (di cui è parte cospicua l’università, per fortuna, nella sua quasi totalità, pubblica) e della spinta democratica, che malgrado tutto opera fortemente nella zona piú delicata e viva dei giovani.

Chi, come me, non ha disdegnato per un malinteso decoro accademico di assistere e partecipare alle assemblee tenute dagli studenti fiorentini in questi giorni, ha ben avvertito la maturità delle dichiarazioni fatte dai vari rappresentanti delle diverse organizzazioni studentesche e nelle diverse impostazioni ideologiche ha sentito quasi sempre un grado di serietà, di preparazione, e soprattutto di democraticità che avrebbero assai sorpreso i fautori dello studente che deve solo studiare e che deve essere trattato solo come un oggetto di cui, un po’ curiosamente e un po’ dispettosamente, verificare l’incasellamento nel punto di esame.

E soprattutto da quelle dichiarazioni derivava una considerazione molto importante: non solo la risposta a chi ha parlato di «gruppi di studenti» o di chi ha tentato di scoprire in tutta l’agitazione una manovra interessata di partiti politici, ma la garanzia dello spirito democratico degli studenti. Democratico da ogni punto di vista. Perché quella che risultava dalle diverse dichiarazioni (specie nell’assemblea piú imponente nella notte dell’occupazione dell’Università da parte della polizia) era un’unità democratica consapevole ed articolata. Cioè, il fondo democratico comune delle posizioni degli studenti, delle ragioni della loro lotta, delle prospettive di essa, delle richieste di rinnovamento dell’università, della scuola, della società italiana, risaltava entro una gamma diversa di impostazioni ideologiche e queste a loro volta erano superate dal comune riferimento democratico di quei discorsi. Naturalmente con diversi accenti, con diversa profondità di tono, con diversa complessità di implicazioni politiche e sociali, ma con una radice comune che assicurava la concordia nella lotta e la possibilità di un dialogo ulteriore ed attivo.

Ancora un altro punto positivo: alle assemblee studentesche (cui parteciparono alcuni assistenti, incaricati e professori di ruolo) furono presenti anche alcuni giovani operai e la loro presenza fu intesa dagli studenti nel suo senso giusto: non quello di una piccola manovra politica, ma quello piú profondo (e che avrebbe superato comunque anche l’intenzione di una manovra politica) di una comunanza di interessi al rinnovamento della società italiana in ogni suo aspetto.

Concluderò infine constatando come l’agitazione studentesca sia stata nettamente inquadrata entro la piú generale lotta per il rinnovamento non solo dell’Università, ma di tutta la scuola italiana e che concorde fu da parte degli studenti la consapevolezza dell’insufficienza e del carattere confessionale del Piano Fanfani, mentre da un punto di vista pratico, numerose e concrete furono le proposte di nuovi modi di inserimento dell’Università nei vivi interessi culturali, economici, sociali del paese e degli enti locali.

Su questi risultati, e contro le speranze dei conservatori di ogni tipo e grado, si è venuta cosí formando una promettente intesa fra tutti i settori universitari nelle loro forze piú rappresentative e una piú larga intesa con altri settori attivi della vita italiana. E non sarà facile fermare l’azione di forze che nelle giornate scorse hanno compiuto un’essenziale prova di compattezza e di decisione ed hanno meglio chiarito gli obiettivi da perseguire e la natura e la consistenza degli ostacoli interni ed esterni da superare.